di Avv. Emanuele Compagno
Sabbiamo bene che dal 2024 a molti utenti di energia e gas sono giunte bollette anche 4 o 5 volte più alte del solito.
Cosa è successo?
Le aziende erogatrici hanno modificato unilateralmente le tariffe avvalendosi della possibilità concessa dall’art. 13 del codice di condotta Arera.
Tale norma consente le modifiche unilaterali spedendo una comunicazione anche non raccomandata al consumatore almeno 3 mesi prima dell’attivazione delle nuove condizioni.
In questo tempo il consumatore può cambiare operatore se non accetta la modifica.
I consumatori non hanno visto la lettera, questa non è giunta a destinazione o, semplicemente, trattandosi di comunicazione semplice, non è stata considerata.
Come uscirne?
Una soluzione potrebbe consistere nella valutazione di buona fede contrattuale.
Oltre alle norme di cui al provvedimento amministrativo dell’Arera, vanno anche considerate, infatti, anche le norme relative ai contratti, dettate dal codice civile, dal momento che la fornitura di energia elettrica o gas è un contratto di somministrazione ai sensi dell’articolo 1559 del codice civile.
Tale contratto ha la caratteristica di essere un contratto di durata, pertanto l’esecuzione dello stesso è influenzata (anche nei prezzi) da quanto generalmente applicato dal fornitore.
E ciò è utile per comprendere come lettera “informale” non sia in grado, da sola, di richiamare l’attenzione del consumatore su un elemento (prezzo) che usualmente viene applicato in un certo modo.
Anche al contratto di somministrazione si applica l’articolo 1375 del codice civile e cioè “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.
La buona fede contrattuale costituisce oggetto di un vero e proprio obbligo giuridico consistente in un generale dovere di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di comportarsi in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere non tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem leadere.
Si sostanzia nel compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari per la salvaguardia dell’interesse della controparte.
Tale principio si fonda sull’articolo 2 della Costituzione che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, cioè, e questa è la cosa più importante, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito dalle singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere anche per sé un danno risarcibile (Cassazione a Sezioni Unite 28056 del 2008).
L’inadempimento dell’obbligazione di comportarsi secondo in buona fede, da intendersi in senso oggettivo, genera responsabilità contrattuale. Ciò significa che, nel caso di specie, la violazione del principio di buona fede porta ad un risarcimento del danno pari, ad esempio, alla maggior somma che il consumatore ha dovuto pagare a seguito del comportamento attuato dall’azienda erogatrice, in violazione di tale principio.
Anche la mera inerzia può costituire inadempimento dell’obbligazione di correttezza e buona fede. Tale principio è importante in quanto l’inerzia dell’azienda erogatrice, nell’informare correttamente il consumatore, può sostanziarsi in una violazione della buona fede contrattuale.
La buonafede è stata considerata, oltre che come un criterio di integrazione del contratto, anche come un limite generale all’esercizio dell’autonomia privata e, quindi, un controllo della ragionevolezza e dell’equilibrio del contenuto contrattuale, volto a tutelare contro l’eccessivo squilibrio delle condizioni contrattuali come ad esempio nei contratti del consumatore.
La violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede, ove si risolva nell’imposizione da parte di un contraente, a danno dell’altro, di un contenuto visibilmente squilibrato, in contrasto con il dovere costituzionali di solidarietà sociale di cui la buona fede è espressione, potrebbe comportare, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, la nullità del contratto o di sue singole clausole.
Nel caso di specie, quindi, al di là ed oltre delle norme positivamente stabilite sul comportamento che l’azienda erogatrice dei servizi deve assumere in caso di variazione del prezzo, dettate da Arera, risulta del tutto evidente che una modifica contrattuale comportante la quadruplicazione o quintuplicazione del prezzo, va trattata e gestita dall’azienda stessa anche con riferimento all’art. 1375 c.c. e cioè con le cautele e tutele che, ancorché non scritte, tengano fede ad un generale principio solidaristico che deve condurre ad attuare forme adeguate di protezione degli interessi del consumatore.
Inoltre, la normativa Arera è prevista per le “modifiche” unilaterali del contratto, anche in caso di prezzi.
Per modifica si intende una “variazione parziale” della clausola.
Non un cambiamento radicale, non uno stravolgimento completo della natura dell’elemento essenziale del contratto, il prezzo.
Il prezzo, infatti, è l’elemento essenziale del contratto.
Tale elemento essenziale non viene, con le modifiche unilaterali, modificato nel senso proprio del termine e cioè variato parzialmente.
Nel nostro caso il prezzo concordato viene sostituito con qualcosa di completamente diverso, 4, 5 volte maggiore. Non è una modifica, ma uno stravolgimento che incide in maniera eccessiva e macroscopica sull’elemento essenziale del contratto.
La norma dell’art. 13, quindi, non è propria di tale trasformazione radicale dell’essenza stessa del contratto, a tutto danno della parte più debole.
L’art. 13 è pensato per le modifiche, cioè variazioni che lascino sostanzialmente invariata la natura del contratto. Nel nostro caso siamo di fronte ad una radicale sostituzione, quadruplicazione dell’elemento essenziale del contratto, il prezzo.
L’art. 13, quindi, da solo non basta. Ci vuole qualcosa di più. Ci vuole il rispetto della buona fede.
La norma dell’art. 13 è, quindi, insufficiente ad evitare lo squilibrio contrattuale.
Infatti, la mera “spedizione” di una missiva (non raccomandata) non può giudicarsi strumento idoneo a cautelare opportunamente il pesante pregiudizio in danno alla parte debole del rapporto.
Per sua natura la comunicazione non raccomandata contiene informazioni meno significative e tale è quanto il consumatore può ragionevolmente aspettarsi da una comunicazione di tal fatta.
Invece, il consumatore va incontro ad un mutazione radicale e macroscopica dell’elemento essenziale del contratto. Senza che la sua attenzione sia stata opportunamente richiamata.
Questa non è una “modifica”, ma un diverso contratto, un peso talmente spropositato e sproporzionato che va tutelato con forme confacenti al pregiudizio che il consumatore subisce.
L’azienda incorre, quindi, in un vero e proprio abuso del diritto, abusando della sua possibilità di modificare il prezzo con una semplice comunicazione informale, in presenza – invece – di uno stravolgimento talmente rilevante che richiederebbe, in forza della buona fede nell’esecuzione del contratto, una comunicazione in linea con il pregiudizio che si va a creare, quantomeno servirebbe una raccomandata formale e/o una serie di telefonate.
In sostanza l’Azienda si fa “schermo” dell’invio della mera lettera per – di fatto – nascondere al consumatore una quadruplicazione del prezzo.
Un vero e proprio artifizio che conduce in errore il consumatore. Potrebbe, quindi, invocarsi anche la nullità per “dolo”.
La mera comunicazione informale, quindi, tradisce il principio di buona fede contrattuale in quanto l’azienda utilizza lo strumento previsto da Area per le “modifiche”, con la finalità di stravolgere l’elemento essenziale del contratto, non per quelle che il consumatore possa ragionevolmente aspettarsi come “modifiche”.
Un palese abuso del diritto, una palese violazione della buona fede contrattuale che evidenza, anche, una eventuale attuazione di condotte dolose, volte a un trarre in inganno il consumatore.
La modifica va, quindi, annullata con risarcimento del danno.